Gli Editoriali di Stefano La Mendola

 

Viaggiare attraverso i torti, oltre la schiavitù

 

Liberamente tratto da un articolo di Paola Mastrocola, cui si devono tutte le citazioni.

 

Stare è non muoversi, è poter contare su radici, o basamenti. Un albero sta. Una casa, una statua stanno. Cose che non si spostano. Solide, ferme.

 

Leggere e studiare sono questo: stare, stare sulle parole. Soffermarsi, indugiare (forse per questo oggi leggiamo poco, e studiamo ancora meno?). Si può stare su un libro una vita, e su una pagina o su una frase per ore. Si può leggere e rileggere un brano, smembrarlo (o s-branarlo) parola per parola, fino a impararlo a memoria, a imprimerselo nel sangue. L’unica condizione necessaria, per aver rapporti proficui e di senso con un libro (sia esso cartaceo o digitale), è stare.

 

Stare fermi, e stare anche molto chiusi. Dico chiusi al mondo esterno, chiusi agli altri, a ogni contatto: interrompere tutte le comunicazioni, per un certo tempo, per poterli far entrare poi, gli altri e il mondo intero, nella nostra vita, ma poi, e meglio, quando ne saremo usciti arricchiti da quelle parole su cui abbiamo sostato a lungo, soli, e scollegati.

 

Le parole dei libri esigono il nostro tempo, e la nostra totale dedizione. Che è prima di tutto  concentrazione. «Chiusura cognitiva», la chiamava Salvatore Luria.

 

Se non mi concentro e non sto dentro il pensiero che mi sta nascendo, quel pensiero se ne va. Quindi se non mi concentro, non penso. Anche il pensiero deve fermarsi. O meglio, deve essere fermato. Non ha consistenza, il pensare, se non lo fermiamo: per esempio su un foglio, o su un video. O anche sul tronco di un albero, se preferiamo.

 

Forti di quello stare, possiamo decidere, allora, di partire. La vita ci dispensa altre gioie, più inattese, più stupefacenti. Ad esempio in autostrada, quando imbocchiamo un casello automatizzato e paghiamo il pedaggio infilando i soldi nell’apposito cassettino, ci sentiamo dire: Arrivederci e grazie. Che meraviglia, una macchina che ci saluta! Me ne stupisco sempre. E inevitabilmente, per gratitudine (o per buona educazione?), mi viene da rispondere: Arrivederci a te!

 

I giovani, comunque, oggi non salutano. Non certo perché sono timidi. Anzi, è paradossale che oggi i giovani siano così meravigliosamente estroversi... e così poco salutanti!

 

Non salutano perché non gliel’abbiamo più insegnato, molto semplice. A un certo punto noi adulti abbiamo smesso di pensare che fosse una cosa buona. O forse abbiamo smesso di credere all’importanza di una buona educazione. O ci abbiamo creduto, ma non abbiamo avuto voglia di impartirla noi, forse ritenendo che spettasse ad altri, a qualche figura di cui non sapevamo il nome ma che certo doveva ben esistere, in questo mondo così perfetto.

 

O forse l’educazione ci è sembrata, a un tratto, lesiva della libertà, nemica di una vagheggiata naturalezza e spontaneità del vivere, chissà.

 

Peccato però, perché salutarsi tra sconosciuti è un gesto davvero molto speciale. È un regalo che ci si fa, del tutto gratuito. Un po’ come dire: ma guarda che bel caso, due esseri umani che hanno la fortuna di sfiorarsi, di stare più vicini del normale per un attimo.

 

Non dobbiamo sempre dare ragione a un figlio, per un motivo molto semplice: perché spesso non ha ragione.

 

Veramente, non dovremmo mai dare ragione a nessuno, se non ce l’ha (o meglio, se a noi pare che non ce l’abbia, ovvio!); nemmeno a un amico o a uno zio, o a un superiore, a un collega, un allievo, un medico... È una questione di rispetto: bisogna rispettare il torto dell’altro.

 

Ma con un figlio ancor di più. Dobbiamo dare molta fiducia al suo aver torto, pensare che è dai torti che verrà fuori quel che veramente è, lasciare che il torto lavori in lui e lo cambi, e lo porti ad avere, un giorno, ragione.

 

Ci vuol tempo. Dobbiamo lasciare che il tempo lavori, dentro i nostri figli.

 

Torto è anche l’aggettivo torto: stortato, piegato. Participio passato del verbo torcere. Qualcosa che ha subito un movimento di torsione, e quindi ha perso la sua posizione lineare, giusta. Si è curvato, è diventato tortuoso. La strada può essere torta (tortuosa) o diritta. Ma anche la mente. Aver la mente torta vuol dire pensar sbagliato, o perdersi in tortuosità intellettuali.

 

Torto è il contrario di diritto. È manchevolezza, sbaglio, ingiustizia, errore di prospettiva. Un difetto della vista interiore, tutto sommato, un mettersi a guardar le cose dalla parte sbagliata, o avere qualcosa davanti agli occhi, un muro o un filtro o un qualsiasi ostacolo (spesso ideologico) che impedisce di vedere, ci porta verso tunnel e anfratti senza luce, ci rabbuia e piega.

 

Avere torto è stare lontano dalla verità diritta del proprio essere, e del proprio agire. Aver perso la strada. Ci vuole tempo per colmare quella lontananza, per ritrovare la direzione. Si tratta di un viaggio lungo. Ma si può fare. Soprattutto un figlio ce la può fare, proprio perché ha il tempo davanti a sé.

 

Se però gli diamo ragione quando ha torto, gli impediremo il viaggio.

 

Un libro appena uscito di Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, s’intitola La fatica di diventare grandi, e anche lì si parla di viaggio. Dice che noi adulti abbiamo smesso di accompagnare i giovani nel viaggio verso la maturità. Sono scomparsi i cosiddetti riti di passaggio. Ognuno scivola in un suo tempo uniforme e grigio, liquido, liquefatto. Si diventa qualcosa senza accorgersi di cosa, di quando. I genitori non fissano più le regole, né i confini. Così, l’infanzia, l’adolescenza e la vita adulta non sono più segnate da riti quali il primo giorno di scuola, il fidanzamento, il matrimonio; ma da oggetti: il cellulare, il computer, il motorino, il tablet, la piccola auto (o "macchinetta") e via così.

 

La cosa grave è che, così facendo, stiamo formando «giovani consumatori». Lo dice chiaro nell’ultima pagina, il libro citato: «Se la tesi di questo breve saggio fosse completamente confermata dalla realtà, ci sarebbe da correre ai ripari, perché delegare al mercato dei consumi e ai gruppi giovanili le ineludibili funzioni iniziatiche non può essere una soluzione educativa e formativa soddisfacente. Da ciò non possono che nascere giovani consumatori».

 

Questo richiama un altro libro: Segmenti e bastoncini , in cui l’autore, Lucio Russo, già nel 1998, avvertiva dello stesso rischio. Diceva che una scuola che rinuncia a un livello alto del sapere, una scuola che invece di dire «segmenti» dice «bastoncini» per risultare più facile a tutti, in realtà prepara quei tutti a diventare essenzialmente dei consumatori.

Cioè, dei servi.