Gli Editoriali di Stefano La Mendola

Il buon senso a scuola

Capita nella vita che qualcuno ti consigli di usare il buon senso. A me capita spesso, l’ultima volta ad opera di un’insegnante, per cui, ho ritenuto opportuno approfondire la questione: cosa si intende per buon senso? La scuola ha l’obbiettivo d’insegnarlo? I genitori fanno bene a trasmetterlo ai figli?

L’accezione che tutti immediatamente riconosciamo all’espressione, evoca un comportamento che tenda al celere raggiungimento di un obbiettivo, di una appropriata decisione. Fluidità, semplicità e giustezza sono quindi garantite da chiunque faccia uso di tale condotta.

Secondo tale definizione, il buon senso autorizzerebbe a pensare che ogni genitore abbia responsabile cura dei propri figli, che sia assennato retribuire lautamente i docenti e DS che si spendono con generosità nello svolgimento del loro funzione, tanto quanto avviare ad altri mestieri coloro che si dimostrano palesemente inadeguati, sarebbe naturale scegliere i migliori per governare e mettere all’angolo gli opportunisti.

Insomma, se il buon senso venisse davvero applicato nell’accezione individuata, il mondo in cui viviamo sarebbe molto diverso.

Ma se esso non regola le nostre vite, che senso hanno le frequenti raccomandazioni a farne uso? Qualcosa sembra sfuggirci.

Ci viene in aiuto Sir Konrad Lorenz che nel 1973, anno in cui fu insignito del premio Nobel per la medicina e la fisiologia, ha spiegato bene ne L’altra faccia dello specchio quanto i comportamenti umani siano condizionati dall’hardware forgiato dall’evoluzione: “l’intelligenza e il discernimento del singolo individuo confluiscono, in quanto prestazioni che valgono ad acquisire sapere, nell’accumularsi del sapere tradizionale, sovraindividuale. In modo misterioso e un po’ sconcertante, la cultura inghiotte e digerisce queste prestazioni individuali dei suoi portatori, trasformandole in un sapere generale o, per meglio dire, in un’opinione pubblica su ciò che è giusto e reale. A questo processo partecipano però molte altre prestazioni, che non sono coscienti ne’ governate dalla ragione, ma riferibili alla tendenza dell’uomo al conservatorismo magico.”

Sembra quindi che, in qualità di esseri umani, siamo soggetti, da un lato, all’impulso di usare il buon senso intelligente, dall’altro, a far sì che tale uso non provochi troppi scossoni all’impianto culturale dominante, che deve esser conservato e rimanere “magico”.

Ecco la ragione per cui, al termine “buon senso” si associano due accezioni contrapposte, come si evince dal dizionario Treccani: “buonsènso (o bonsènso; più com. buòn sènso) s. m. [calco dell’espressione fr. bon sens]. – Capacità naturale, istintiva, di giudicare rettamente, soprattutto in vista delle necessità pratiche: un uomo pieno di b.; anche in esclam., un po’ di b., che diamine!; ma è questione di b.!; Il B. che fu già capo-scuola, Ora in parecchie scuole è morto affatto (Giusti); il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune (Manzoni): dove con «senso comune» il Manzoni intende l’opinione della maggioranza in contrasto con la saggezza istintiva dei singoli. Talora però b. è usato in sign. non molto dissimile da quello di «senso comune».”

Riassumendo: l’intelligenza è la facoltà di coloro che scuotono l’impianto culturale dominante (applicando il buon senso, prima accezione), l’omologazione è l’atteggiamento di coloro che difendono il carattere magico del senso comune (applicando il buon senso, seconda accezione).

Accogliamo un altro aiutino: Le nostre paure, scritto da Vittorino Andreoli, nel 2010, 37 anni dopo il saggio di Lorenz.

“Nell'uomo si osserva un'analoga tendenza da parte dell'ambiente sociale, di correggere comportamenti difformi per fare che un soggetto divenga esattamente identico all'altro, nonostante certe resistenze e magari certe caratteristiche fisiche strane. Lo sforzo della società è di omologare, di rendere simili, in modo che il comportamento di un componente sia identico a quello degli altri; ciò permette di prevedere che nella stessa situazione tutti agiranno conformemente. È probabile che i meccanismi che spingono a questo risultato siano in linea con gli imperativi e quindi con le pulsioni che potremmo chiamare ordinatrici e omologanti. Queste considerazioni hanno un enorme impatto sull'uomo perché significa che egli è spinto a mostrare le doti comuni e a nascondere le stranezze che sanno di devianza. E ciò non accade per una decisione bizzarra, ma perché è certo che dentro la norma è più facile vivere in quanto si è visti come simili agli altri e quindi si è meglio accettati rispetto al deviante. L’omologazione aiuta a vivere o rende più facile sopravvivere. E in ciò sta la saggezza dei drives, le guide per adattarsi nell'ambiente fisico e sociale fatto di relazioni. Se uno è a me simile prevedo che si comporterà come mi comporterei io e dunque è come se lo conoscessi e potessi fidarmi. Se all'opposto è uno che risponde in modo diverso da come farei io in quella circostanza, egli induce una serie di incertezze che finiscono per farmi paura e temere reazioni ignote e proprio per questo pericolose. Appartenere alla media rappresenta il migliore modo per vivere in una comunità (stormo, branco, società).”

Se rappresentiamo in un grafico cartesiano la percentuale di persone di una data società (asse delle ordinate) in funzione del quoziente d’intelligenza QI rilevabile (asse delle ascisse), si ottiene un grafico a campana di Gauss come quello a fianco. Il centro rappresenta la zona di medio QI, cui corrisponde il 95% delle persone, l’estremità sinistra è riservata ai meno dotati e ai folli, per valutar bene i quali si legga Erasmo da Rotterdam, quella più a destra a chi possiede intelligenza non ordinaria, definita come segue dall’ironico Andreoli.

Generalmente si ritiene intelligente chi riesce a risolvere problemi per i quali non esiste una risposta stereotipa e generale alla portata di tutti. Di fronte a un problema, l'uomo, come del resto le altre specie di viventi, tenta di risolverlo con i criteri che ha già applicato per altre risposte, ma che in quel caso non riescono a essere risolutivi. L'intelligente è chi riesce a trovare la soluzione specifica, a inventarla dal momento che non era mai stata espressa prima, né da lui né da altri, almeno all'interno della comunità in cui si trova e in cui il problema si pone. In qualche modo questo aspetto riporta alla creatività, che significa poter fare o dire o immaginare ciò che nessuno ha ancora espresso. Sovente, una volta trovata la soluzione del problema, la applicano tutti e certo quel gesto intelligente all' origine, diventa nella sua estensione ordinario. E’ indiscusso che l'intelligenza è una funzione rara e quindi che si pone sempre lontano dalla parte centrale della famosa curva. È una dote non propriamente ricercata, tant'è che non esistono sistemi certi per generarla o per aumentarla, e si tende a dire che è un talento, una stranezza che alcuni hanno, un lusus naturae, come possedere un dito sopranumerario in un piede oppure un organo di dimensione fuori del comune e per questo mostruoso, come possedere la forza di un leone. L’intelligenza non ha mai prodotto ricchezza e non ha assolutamente mai avuto la venerazione della massa che per definizione, non avendo intelligenza, non è in grado di prenderla in considerazione. È una deviazione. I casi di successo - è certo - non sono parti delle persone intelligenti. Quando questa caratteristica è presente, finisce per rappresentare uno strano che rende particolare e singolare un soggetto, e che proprio per questo lo esclude dal contesto sociale, da quelle dinamiche in cui trovarsi tra pari o tra identici, contribuisce a dare senso al proprio agire, per la facile comprensione e persino per la ordinarietà, intesa come fare ciò che gli altri capiscono e sanno fare. L’intelligenza non serve a vivere, anzi è una «dote» che complica tremendamente l'esistenza perché pone fuori dal coro e appare tremendamente stonata. Il migliore suggerimento da impartire a un uomo veramente intelligente, e dunque realmente diverso, è quello di fare di tutto per sembrare come gli altri e quindi di esibire relativamente meno intelligenza possibile.”

Insomma, l’azione dell’intelligente rischia ogni momento di lacerare il velo del magico senso comune, per cui risulta scomoda ai potenti. “Del resto se il potere è raggiunto, come si è detto, senza intelligenza e anzi l'intelligenza ne rappresenta un ostacolo immane, significa che il potere manca di intelligenza e pertanto vi farà salire persone ordinarie, omologate. Se la carriera si legasse all'intelligenza sarebbe riservata a pochi deviati e attizzerebbe la rivolta perché sarebbe discriminante e incomprensibile”.

Ne consegue un tragico effetto, denunciato da Andreoli: “La società è il luogo dell'idiozia e nel tempo presente sono tornati di moda gli idiot savant. Sono quegli idioti che parlano, sentenziano, riportano frasi celebri che magari si autoassegnano. Sono idioti, ma almeno qualche volta non lo sembrano. Persone che detestano la cultura che è stata associata all'intelligenza, perché se coloro che gestiscono il potere non ne fanno parte, è segno certo che è inutile e persino pericolosa. L’ordinario è la grande forza sociale e il grande stabilizzatore. E il ripetere gli stessi gesti, le stesse frasi, il frequentare le stesse persone senza intelligenza come loro, dà una grande serenità, come se vivere fosse facile per chi si trova in una fortezza di tutti uguali e tutti rigidamente idioti”.

A questo punto abbiamo le idee più chiare su cosa si intenda per buon senso e possiamo passare ai quesiti successivi: quale tipo di buon senso deve essere trasmesso da un istituto scolastico e quale da un genitore? La scuola ha l’obbiettivo d’insegnare il buon senso e di quale tipo? E come dovrebbero regolarsi i genitori?

Il processo d’apprendimento è, per definizione, intelligente e creativo, perché impone continuamente l’abbandono delle posizioni acquisite, per avanzare verso le nuove (cambiamento del comportamento o della percezione, quale risultato dell’esperienza). E’ un movimento e, come ogni movimento, richiede tensione (i fisici la chiamano differenza di potenziale) dalla quale scaturisce energia creativa. La scuola moderna non deve tendere al radicamento delle posizioni culturali acquisite (pena la morte culturale ed economica del paese), ma renderle disponibili ai giovani, perché essi abbiano la possibilità di superarle, individuando nuovi paradigmi. La famiglia, al contempo, deve accompagnare il giovane nel processo di metabolizzazione di tali cambiamenti, selezionandoli, regolandone l’intensità, facendo grande cura, da un lato, a non soffocarli, dall’altro, a renderli sostenibili, nel contesto sociale in cui si esprimono.

In questo modo, gli intelligenti e i pazzi continueranno a lacerare il velo magico, e potrà ancora, ed ancora capitare che qualcuno del 95% degli omologati vi dia un’occhiata attraverso e possa decidere di cambiare posto, sotto la campana del buon Carl Friedrich Gauss, sperimentando la più alta delle condizioni umane: la libertà.